Dalla neuropsichiatria infantile al counselling sistemico: il metodo di Silvana Quadrino che ha cambiato il modo di comunicare nella sanità

Pubblicato il 15/12/2025 - lettura stimata: 13 minuti

Con oltre quarant’anni di esperienza, ha ideato e diffuso un modello di formazione fondato sullo “sguardo sistemico”, capace di proteggere i professionisti e migliorare la qualità del loro intervento

Silvana Quadrino è Psicologa Psicoterapeuta, Formatrice, Counselling Supervisor e Trainer.

La sua formazione nasce in ambito pedagogico e si arricchisce fin da subito di una prospettiva interdisciplinare. Dopo la laurea, ha seguito uno dei primi corsi triennali postuniversitari di specializzazione in Psicologia clinica dell’età evolutiva. Nel 1977 ha poi proseguito con il primo corso di Psicoterapia della famiglia presso il Centro Milanese per lo Studio della Famiglia, formandosi con figure di riferimento come Mara Selvini, Luigi Boscolo e Gianfranco Cecchin.

A Torino ha lavorato nelle prime équipes territoriali di neuropsichiatria infantile, maturando un’esperienza diretta con bambini, famiglie e contesti complessi. Dagli anni Ottanta si è dedicata non solo alla psicoterapia, ma anche alla formazione dei professionisti non psicologi sulla comunicazione e sulla relazione di cura.

Ha sviluppato un modello sistemico-narrativo progettato per rispondere ai bisogni di educatori, insegnanti, operatori sociali, medici e riabilitatori, spesso in difficoltà nel gestire lo scambio comunicativo con pazienti e familiari entro i confini del proprio ruolo.

Per valorizzare e diffondere questo approccio ha fondato nel 1989, insieme al medico e studioso di medicina sociale Giorgio Bert, l’Istituto Change di Torino, prima scuola in Italia di counselling sistemico. Da oltre quarant’anni svolge attività formativa sui temi della comunicazione nelle relazioni di cura collaborando con Università, Aziende Sanitarie, Consorzi Socio Assistenziali, Scuole e Ordini Professionali.

Ha approfondito l’educazione alla genitorialità e collabora stabilmente con la rivista UPPA, contribuendo con articoli, libri e percorsi formativi rivolti ai professionisti dell’infanzia e alle famiglie. Una carriera costruita intrecciando ricerca, pratica clinica e divulgazione, sempre con lo sguardo rivolto alla qualità delle relazioni educative e di cura.

Il suo impegno nella divulgazione prosegue anche su ebookecm.it con i corsi di formazione a distanza, strumenti che offrono ai professionisti della sanità occasioni concrete di aggiornamento continuo e consapevole.

Di seguito la sua intervista, un percorso ricco di riflessioni sulla comunicazione nelle professioni di cura, sulle competenze relazionali che proteggono i professionisti nei contesti più delicati e sull’importanza dello sguardo sistemico nei servizi educativi, sanitari e sociali.

Ne emerge una visione lucida delle sfide attuali e di quelle che attendono il settore, insieme a spunti preziosi su genitorialità, formazione e qualità delle relazioni di aiuto.

Silvana Quadrino | EBook ECM

Conflitti, stress e relazioni difficili: la comunicazione è una competenza essenziale per chi lavora nella cura

Come è iniziato il suo percorso professionale?

Dapprima come insegnante di lettere e di storia e filosofia nelle scuole medie e nei licei, prima come supplente negli anni dell’Università e poi come incaricata annuale dopo la laurea. Nel frattempo, mi ero specializzata in psicologia clinica dell’età evolutiva, un campo che a quell’epoca cominciava appena a svilupparsi.

Quando sono state costituite a Torino le prime équipes di Neuropsichiatria infantile sul territorio – siamo nel 1974 - gli psicologi e le psicologhe erano una figura ancora rara e con formazione alquanto variegata e imprecisa. La mia specializzazione mi permise di entrare subito nelle équipes, e molto presto mi fu richiesto di collaborare all’aggiornamento dei colleghi.

Il modello di intervento dominante in quel momento era quello psicodinamico a orientamento Kleiniano, che non mi convinceva e mi sembrava poco adeguato alla realtà sociale di una città di immigrazione (dal sud Italia), con diseguaglianze culturali e linguistiche significative, e con situazioni di difficoltà dei bambini e degli adolescenti che non potevano a mio avviso essere unicamente riferite a un “intrapsichico” su cui intervenire direttamente e individualmente.

Il rapporto fra le situazioni famigliari e il disagio dei bambini, ma anche degli adulti, risultava evidente anche dalle storie dei pazienti che in quegli anni uscivano dai manicomi grazie alla legge Basaglia, e che incontravo nel mio lavoro di psicologa volontaria nel Centro di risocializzazione per pazienti psichiatrici di Torino, attività che affiancavo a quella “ufficiale” nelle équipes di NPI.

L’incontro con Mara Selvini rappresentò la risposta ai miei dubbi: l’approccio sistemico dava struttura metodologica alla mia convinzione che la famiglia dovesse in qualche modo entrare nella stanza dello psicologo, in presenza oppure in qualche modo evocata nell’intervento del terapeuta. Questo, che definisco lo sguardo sistemico, vale secondo me anche per tutti i professionisti dell’aiuto e della cura, ma in quei contesti deve essere declinato con un metodo diverso da quello dello psicoterapeuta.

Da quella convinzione iniziai a strutturare un metodo di formazione basato sullo “sguardo sistemico” ma adeguato alle specificità dei contesti non terapeutici, rivolto dapprima alle educatrici delle scuole per l’infanzia di Torino, che rappresentavano in quegli anni una eccellenza a livello nazionale, e poi a tutti i professionisti sanitari e sociali.

A partire dalla letteratura internazionale decisi di definire quel metodo “counseling”, termine che corrispondeva al meglio alla esigenza di differenziare quel tipo di intervento da quello psicologico e psicoterapeutico. Nel 1989 usciva il mio primo libro di sistematizzazione di quel metodo, “Il medico e il counseling”, Il Pensiero Scientifico Editore, scritto con Giorgio Bert, medico e studioso di Medicina Sociale che ha condiviso con me la storia della diffusione di questo metodo.

Cosa l’ha portata ad occuparsi di comunicazione in ambito sanitario?

La formazione sistemica mi ha portata a vedere le problematiche del “paziente” all’interno del sistema famiglia di cui fa parte. Con quel sistema interagiscono anche tutti i professionisti della cura, quelli dell’educazione e dell’aiuto in genere. Mi sono resa conto che quell’interazione richiede una formazione specifica di quei professionisti, che devono sapersi relazionare con il paziente e con i suoi famigliari utilizzando la comunicazione senza per questo imitare l’intervento dello psicologo.

Il metodo che utilizzo nei miei corsi e di cui parlo nei miei libri è nato e si è perfezionato con l’esperienza concreta di oltre 40 anni di interventi formativi in tutti gli ambiti della sanità, nella scuola, nei servizi sociali ecc.

Quali sono gli aspetti più importanti che vorrebbe trasmettere ai professionisti sanitari con i suoi corsi?

La responsabilità di ogni atto comunicativo quando si lavora nelle professioni di aiuto e di cura. La visione sistemica delle comunicazioni e delle relazioni, che richiede che il professionista sappia esplorare il mondo complesso del cliente/paziente in modo appropriato al contesto in cui opera.

La consapevolezza che tutto ciò che il professionista fa (o non fa), dice (o non dice) entrerà in qualche modo nelle dinamiche della famiglia del paziente, il cui equilibrio spesso è già perturbato dall’evento malattia.

La necessità, per i professionisti di oggi, di possedere strumenti comunicativi capaci di proteggerli dagli effetti delle comunicazioni conflittuali, aggressive, svalutanti, o delle situazioni emotivamente intense (comunicazione di diagnosi, accompagnamento nel fine vita ecc.) evitando le escalation o il distanziamento eccessivo, e mantenendo al tempo stesso la qualità della relazione di cura. Sono tutti aspetti legati alle competenze di comunicazione consapevole che i professionisti non acquisiscono nel percorso universitario.

Secondo lei, quali sono le sfide principali che i professionisti sanitari dovranno affrontare nei prossimi anni nel suo ambito?

La diffusione di informazioni sulla salute anche attraverso AI e la disintermediazione (annullamento delle differenze fra informatori autorevoli e competenti e “chiunque dica qualcosa” su un determinato argomento), che farà sì che i pazienti portino sempre più spesso nella comunicazione con i professionisti informazioni e convinzioni scorrette o non condivisibili.

Lo smantellamento del SSN che renderà i cittadini sempre più frustrati e aggressivi nelle loro richieste. La capacità di gestire situazioni preconflittuali e conflittuali con competenze comunicative e relazionali ben strutturate diventerà un autentico “salvavita” per i professionisti.

Come immagina l’evoluzione del suo settore nei prossimi 5-10 anni?

Non la immagino: con lo smantellamento del SSN la formazione in un campo non “tecnico” come la comunicazione avrà sempre meno finanziamenti pubblici, e la disponibilità dei professionisti a pagare di tasca propria una formazione non “spendibile” in termini economici si ridurrà, temo.

Già oggi molti MMG (Medici di Medicina Generale, NdR) mi dicono che fra un corso sull’uso di esami strumentali, che poi permetterà di proporli in studio ai pazienti e fatturarli extra, e un corso di comunicazione, scelgono ovviamente il primo.

Che consiglio darebbe a un giovane professionista che inizia ora la sua carriera?

Di superare questo tipo di valutazione basata unicamente sugli aspetti economici immediati della formazione e ricordare che la protezione di sé stessi è un diritto/dovere per chi lavora in un ambito ad alta intensità emotiva come il mondo della cura.

Ogni professionista rappresenta un “capitale umano” innanzitutto per sé stesso e per la propria famiglia, preservarlo e curarne il benessere non può essere un obiettivo secondario. Non si impara a comunicare meglio per diventare più buoni ma per evitare il burnout, la perdita di passione per una professione che si è scelta e, di conseguenza, la perdita di qualità del proprio intervento di cura.

C’è un episodio della sua esperienza lavorativa che l’ha colpita particolarmente e che vorrebbe condividere?

Per un convegno di oncologia dedicato ai tumori femminili mi avevano chiesto un intervento sulla comunicazione di diagnosi. Avevo inserito nell’intervento una parte dedicata al modo in cui il medico può aiutare la madre e/o la coppia a prepararsi per parlare ai figli di ciò che sta accadendo. Al termine del mio intervento il professore a cui era affidato l’aspetto tecnico della diagnosi, un oncologo molto noto e apprezzato, appariva visibilmente commosso.

Prese la parola e spiegò al pubblico la sua commozione: “Mi sono appena reso conto di avere sempre dedicato tutto l’impegno e l’attenzione per comunicare con la massima delicatezza alla donna la diagnosi e il percorso di cura, ma di non avere mai pensato che poi sarebbe tornata a casa dai suoi figli e avrebbe dovuto dir loro qualcosa; adesso capisco che parlare con me di cosa dire loro, e di come farlo, avrebbe potuto aiutare quelle pazienti più della descrizione dettagliata del percorso di cura”.

Fuori dal lavoro, quali passioni o interessi coltiva?

Lettura, cinema, viaggi, fotografia, cucina. E, soprattutto, amicizie.

Se dovesse pensare al titolo di un libro o di un film che le è rimasto particolarmente impresso per affinità con il suo settore, quale sarebbe?

Ultimamente, Adolescence. Sto lavorando molto sull’educazione affettiva “al maschile” e sulla possibilità dei padri di sviluppare modelli educativi che propongano i ragazzi, i futuri maschi adulti, modalità relazionali basate sul rispetto reciproco, in particolare nelle relazioni maschio-femmina.

C’è un pensiero motivazionale, o un concetto, da cui trae ispirazione nel suo lavoro?

Più un atteggiamento mentale: la curiosità, o quella che Marianella Sclavi definisce exotopia. Mi interessano le persone, le loro storie, le loro specificità, anche quando hanno come risultato un pensiero o comportamenti che non condivido. La domanda “che cosa rende possibile” quell’atteggiamento, quel comportamento, mi guida nella relazione terapeutica ed è presente nei miei interventi formativi.

Questo non significa ovviamente accettazione di qualsiasi comportamento, specie se ha conseguenze sugli altri, ma l’atteggiamento che mi guida è sempre cercarne il senso (non la causa!), e se sono in una relazione di cura o di formazione, di rendere possibili cambiamenti. Anche la mia attività di scrittrice è permeata da questa curiosità nei confronti dei miei stessi personaggi, che si svelano a poco a poco nella narrazione.

Che messaggio vorrebbe lasciare ai lettori dei suoi corsi ECM?

Mantenete la curiosità, imparate ad ascoltare i vostri pazienti e a chiedervi sempre, quando conducete un colloquio, “Cosa non so, ma mi servirebbe sapere per stabilire una relazione efficace con questa persona?”. Imparare a non convincersi troppo presto di avere capito tutto, a fare domande, ad ascoltare le risposte, è più difficile di quello che sembra, perché il nostro cervello veloce ci trascina a semplificare, a ignorare le specificità, a vedere certezze dove dovremmo avere dei dubbi e in ultima analisi a “non vedere” realmente l’altro; “non essere stati visti” è quello che i pazienti lamentano di più quando la relazione di cura non funziona: anche l’errore umano del medico viene tollerato di più della superficialità relazionale.

Quali progetti futuri sta portando avanti e su cui i lettori potranno ritrovarla?

Sto lavorando sulla conduzione dei colloqui con le coppie nei contesti non terapeutici: medici, pediatri, riabilitatori ecc. incontrano coppie di genitori, o pazienti con i loro compagni/compagne, o figli con un genitore, e devono avere la capacità di guidare un colloquio in cui i due interlocutori giocano un gioco relazionale noto a loro ma non al professionista, che finisce per sentirsi, come diceva uno psicoterapeuta della coppia, “come una mosca sul muro”.

Ma gli strumenti di conduzione dello psicoterapeuta non sono quelli che può usare un altro professionista, intanto perché quest’ultimo non possiede quel tipo di formazione, ma soprattutto perché quella coppia non ha chiesto una psicoterapia. Le tecniche di conduzione dei colloqui con due persone saranno il tema del mio prossimo corso.

Un altro tema che coltivo da tempo e su cui prima o poi scriverò un testo è la conduzione del colloquio decisionale e motivazionale. E poi c’è il tema educazione affettiva al maschile, su cui ho già scritto un libro, A cosa serve un papà, e su cui realizzerò una serie di incontri e conferenze che potrete trovare segnalate sul mio sito e sui miei social.

Potete seguirmi anche abbonandovi alla newsletter dell’Istituto CHANGE, riceverete tutti gli aggiornamenti sulle attività formative e culturali.

Il futuro della cura parte dalla comunicazione con i pazienti (e le loro famiglie)

Il percorso di Silvana Quadrino illumina con chiarezza la complessità delle relazioni di cura e il valore delle competenze comunicative nei contesti sanitari.

Le sue esperienze mostrano come ogni dialogo, ogni scambio e ogni decisione siano influenzati dalle storie familiari, dalle emozioni e dal contesto in cui il professionista si muove.

Le sfide che evidenzia – dalla crisi del SSN sempre meno finanziato, alla crescente circolazione di informazioni poco affidabili – rendono queste competenze ancora più necessarie per proteggere sia chi cura sia chi chiede aiuto.

Saper comunicare con i pazienti e con i loro familiari aiuta a costruire relazioni solide, a prevenire situazioni di conflitto (o saperle gestire quando si verificano) e a proteggere i professionisti dal rischio di burnout in un sistema sempre più esigente.

Il suo invito a lavorare con consapevolezza, attenzione e curiosità diventa un orientamento concreto per mantenere qualità e benessere nella pratica quotidiana.

Un impegno che prosegue anche attraverso i suoi eBook ECM e i percorsi di formazione a distanza, oggi strumenti fondamentali per sostenere l’aggiornamento continuo dei professionisti della sanità.

Domande & Risposte

Cosa ritiene Silvana Quadrino fondamentale nella comunicazione tra professionisti sanitari e pazienti?

Secondo Silvana Quadrino, la comunicazione è un elemento essenziale della cura perché permette ai professionisti di comprendere il mondo del paziente, le dinamiche familiari e le emozioni in gioco. Ritiene che una buona comunicazione aiuti a prevenire conflitti, sostenere la relazione di cura e ridurre lo stress operativo dei professionisti.

Perché Silvana Quadrino considera lo sguardo sistemico centrale nella formazione?

Perché consente di interpretare ogni situazione non come un fatto isolato, ma come parte di un sistema di relazioni. Sostiene che questa prospettiva permetta ai professionisti dell’aiuto di intervenire in modo più consapevole, evitando approcci riduttivi e rendendo più efficace la comunicazione con pazienti e familiari.

Quali sfide vede per il futuro dei professionisti della cura?

Silvana Quadrino individua sfide crescenti legate alla disinformazione, alla pressione sul sistema sanitario e alla crescente complessità degli incontri con i pazienti. Ritiene che le competenze comunicative diventeranno sempre più decisive per tutelare sia gli operatori sia le persone assistite, permettendo di gestire situazioni critiche senza alimentare stress e burnout.

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