La cura come incontro: il percorso di Laura Baccaro tra ascolto, formazione e responsabilità etica
Una riflessione sulla medicalizzazione del disagio e l’urgenza di ripensare il tempo dell’ascolto nei percorsi terapeutici e formativi
Psicologa specializzata in criminologia e psicologia giuridica, Laura Baccaro ha costruito il proprio percorso professionale attraversando ambiti complessi della cura, della giustizia e della formazione.
Ha lavorato a stretto contatto con persone con disabilità, senza dimora, pazienti psichiatrici e persone autrici di reato, sviluppando una competenza solida nei contesti di maggiore fragilità sociale e relazionale.
È Direttrice scientifica della “Rivista Psicodinamica Criminale”, dirige un centro di intervento per uomini maltrattanti (CUAV) e svolge il ruolo di giudice onorario presso il Tribunale di Sorveglianza di Venezia. Inoltre porta avanti l’attività accademica come professoressa a contratto all’Università di Verona ed è autrice dei corsi ECM FAD sul sito di ebookecm.it
L’intervista offre uno sguardo profondo e non convenzionale sul lavoro nelle professioni di cura. Laura Baccaro riflette sul valore dell’esperienza concreta, sulla necessità di mantenere vivo il pensiero critico e sul rischio di una lettura riduttiva e medicalizzante del disagio umano.
Emergono con chiarezza i temi centrali della formazione ECM: il cambiamento dei bisogni dei pazienti, la qualità della relazione, il tempo dell’ascolto, la responsabilità etica del professionista. Ne risulta un dialogo denso di contenuti, capace di coinvolgere chi legge e di offrire spunti reali per ripensare il senso della cura, oggi e negli anni a venire.
Dalla psichiatria alla formazione: una carriera guidata dall’incontro con l’altro
Come è iniziato il suo percorso professionale?
È nato dal desiderio e dalla curiosità di incontrare e conoscere mondi diversi. Ho iniziato lavorando in ospedale e poi in ambito socio-sanitario. Ho sempre cercato di affiancare alla professione “pratica, al fare”, anche l’attività di docenza in ambito universitario.
Sono una persona che cerca di unire il “fare” al saper fare e all’essere. Le tematiche che tratto sono le riflessioni sul lavoro, sulle esperienze che vivo e che studio per poter agire al meglio.
Parto dall’analizzare e studiare quanto vivo lavorativamente cercando di capire e approfondire.
Quali sono gli aspetti più importanti che vorrebbe trasmettere ai professionisti sanitari con i suoi corsi ECM?
Vorrei far capire come l’esperienza concreta debba sempre essere unita allo studio, al cercare di capire cosa significa quell’evento, a non dare per scontato che “sappiamo e abbiamo già capito” perché conosciamo o abbiamo già visto quell’esperienza. Dopo quasi 40 anni di lavoro a contatto con pazienti in diversi ambiti posso scrivere come le richieste, i bisogni, le sensibilità, le problematiche anche sanitarie e socio-sanitarie si siano modificate. Noi professionisti dobbiamo avere strumenti attuali per cogliere questo cambiamento e costruire relazioni di cura adeguate al contesto e al paziente.
Secondo lei, quali sono le sfide principali che i professionisti sanitari dovranno affrontare nei prossimi anni nel suo ambito?
La sfida più grande è riconoscere e “gestire” il cambiamento continuo imposto da ritmi lavorativi e sociali, cambiamento che sembra parcellizzare e frammentare l’animo umano in competenze o bisogni da affidare ai diversi specialisti. Inoltre le persone stanno “scappando” sempre più da sé stesse e dai propri sentimenti e dal proprio sentire. C’è la paura dell’incontro, in primis c’è la paura di incontrare sé stessi, di vedersi. A ciò le persone reagiscono con aggressività.
La sfida per gli psicologi è creare relazioni autentiche, che tengano conto della paura e dell’aggressività, e vedere l’essere umano nella sua interezza. Ma senza avere la ricetta salvifica.
Come immagina l’evoluzione del suo settore nei prossimi 5-10 anni?
Lo immagino sempre più medicalizzato e psichiatrizzato, vedo a rischio gli aspetti umanistici e più spirituali, che considero fondamentali.
Può approfondire questo concetto?
Certamente. Quando parlo di un futuro “sempre più medicalizzato e psichiatrizzato”, intendo una tendenza – già in atto – a interpretare e ridurre, incasellandolo, il disagio umano quasi esclusivamente attraverso le categorie cliniche, le diagnosi e i protocolli standardizzati.
Vedo sempre più che il malessere psichico viene letto soprattutto in termini medici e che si privilegia il trattamento farmacologico, senza dare un significato di vita e di contesto. Quasi che il soggetto venisse espropriato del suo male di vivere. Inoltre le linee guida, utili e necessarie, ma “usate senza cura” sembrano ridurre a volte l’esperienza umana soggettiva a dei sintomi da catalogare.
Il tempo di ascolto dei professionisti sanitari nelle visite ai pazienti si è ridotto, quantitativamente e anche qualitativamente vista l’aziendalizzazione della sanità pubblica. Sembra non serva più ascoltare e osservare il paziente per fare una diagnosi!
Il pensare che il disagio e la malattia sono, spesso, l’unica espressione del bisogno di senso, di appartenenza e di spiritualità, dell’essere al mondo sembra, spesso, escluso dal concetto di cura e del prendersi cura.
Insomma il rischio è che si arrivi a una “simil-cura”, una mera medicalizzazione ove si è persa la Persona nella sua unicità e interezza! Per me è fondamentale l’incontro, dare e preservare uno spazio e un tempo di ascolto e di relazione. Vera e autentica. Un dare significato al sintomo e alla vita perché la sofferenza umana non è mai “solo malattia”.
Un equilibrio tra scienza e cuore lo auspico proprio per restituire profondità e completezza alle diagnosi e alla Cura e per restituire alla persona non solo sollievo dai sintomi, ma anche significato, crescita e speranza.
Che consiglio darebbe a un giovane professionista che inizia ora la sua carriera?
La curiosità, il sogno e la sensibilità interpersonale dovrebbero essere le bussole per guidare la pratica professionale dapprima e la formazione continua personale poi. Un consiglio: abbi dubbi, cerca e studia con spirito critico a partire dai Grandi pensatori e dai grandi maestri.
Quali pensatori e maestri l’hanno maggiormente influenzata? E quali suggerirebbe di studiare a un giovane professionista?
Ritengo sia necessario costruire un pensiero integrato tra scienza, filosofia, psicologia, sociologia e spiritualità per vedere l’essere umano nella sua interezza.
Alcuni autori: Carl Gustav Jung, Carl Rogers, James Hillman, Ludwig Binswanger. In Italia, la tradizione fenomenologica è stata portata avanti da psichiatri come Bruno Callieri, Danilo Cargnello, Franco Basaglia, ed Eugenio Borgna.
Ma anche studiare Martin Heidegger, Emmanuel Lévinas, Hannah Arendt, Émile Durkheim, Zygmunt Bauman, Clifford Geertz.
E non dimentichiamo i grandi Autori: Fëdor Dostoevskij, Lev Tolstoj, Franz Kafka, Italo Calvino, Cesare Pavese.
Uno scaffale speciale occupa la poesia: Alda Merini, Sylvia Plath, Emily Dickinson. Testi che davo obbligatoriamente da leggere a tutti i tirocinanti durante il mio lavoro con pazienti dell’ospedale psichiatrico.
Insomma invito a leggere, studiare e integrare aspetti tecnici con la parte più umana, emozionale ed artistica. Essere curiosi, aprirsi alle differenze ed essere umili nell’Incontro.
C’è un episodio della sua esperienza lavorativa che l’ha colpita particolarmente e che vorrebbe condividere?
In 40 anni di incontri gli episodi sono innumerevoli. Sicuramente, come già esponeva Rogers, devo ringraziare i miei pazienti per avermi insegnato a “stare” ad “esserci” davvero negli incontri.
Ricordo quando, giovane laureata con idealmente i miei manuali sottobraccio come armatura protettiva, iniziai il lavoro con i pazienti psichiatrici rimasti nel manicomio perché non avevano trovato altra collocazione nelle residenze esterne.
Erano persone particolari, alcuni erano stati lobotomizzati, quasi tutti avevano fatto decine e decine di elettroshock. Ricordo il loro dolore, l’allegria fuori tempo e la saggezza profonda di una donna che guardandomi con occhi azzurrissimi mi disse: “Tu non puoi entrare nella mia testa, non potrai mai capire quello che penso… non ti serve studiare… stai qua con me!”
Fuori dal lavoro, quali passioni o interessi coltiva?
Oltre alla famiglia umana, convivo felicemente con 2 cani adottati dai canili e due gatti abbandonati. Vivo in campagna, mi piace sporcarmi le mani con la terra coltivando orto e giardino.
Se dovesse pensare al titolo di un libro o di un film che le è rimasto particolarmente impresso per affinità con il suo settore, quale sarebbe?
Amo la narrativa che riesce a cogliere e tratteggiare aspetti “troppo umani” delle emozioni e dei momenti di vita che ritroviamo in noi e nei pazienti. Alcuni autori classici: Calvino, Dostoevskij.
C’è un pensiero motivazionale, o un concetto, da cui trae ispirazione nel suo lavoro?
Praticare l’umiltà di non sapere e di non essere il salvatore.
Nonché avere fiducia delle risorse che il paziente ha e non sostituirsi a lui (perché Noi sappiamo!) ma affiancarlo nel suo percorso.
Che messaggio vorrebbe lasciare ai lettori dei suoi corsi ECM?
Spero di migliorare e creare contenuti sempre più interessanti e utili alla pratica professionale.
Quali progetti futuri sta portando avanti e su cui i lettori potranno ritrovarla?
La proposta di un manuale sulla violenza e molestie sessuali declinata nell’ambito lavorativo, rivolta non solo al genere femminile ma a tutti/e.
Inoltre mi piacerebbe sviluppare un manuale operativo a schede pratiche per il percorso di trattamento destinati alle persone che hanno agito violenza nelle relazioni.
Ripensare la cura a partire dall’ascolto e dalla complessità
L’intervista con Laura Baccaro si chiude lasciando una traccia profonda, perché non si limita a raccontare un percorso professionale, ma restituisce un modo di abitare la cura.
Dalle sue parole emerge una postura rara, fatta di ascolto, studio continuo e consapevolezza dei propri limiti, che diventa forza e responsabilità.
Il filo conduttore, riscontrabile anche nei suoi libri su ebookecm.it, è l’idea che la relazione resti il cuore del lavoro sanitario, anche quando il contesto spinge verso la frammentazione, la velocità e la standardizzazione degli interventi.
La riflessione sulla medicalizzazione del disagio, sull’impoverimento del tempo dedicato all’incontro e sulla necessità di uno sguardo integrato sull’essere umano interpella direttamente chi opera nei servizi.
Ne deriva un invito esigente ma necessario: coltivare il dubbio, mantenere vivo il pensiero critico, preservare uno spazio autentico di relazione.
Una prospettiva che non offre soluzioni facili, ma richiama alla continuità dell’impegno, alla qualità della presenza e a una cura che non rinunci mai alla Persona.